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Premio 1972 – Umberto Bartoli


Nato a Livorno, anzi all’Ardenza, lo scultore Umberto Bartoli (1888-1977) sentì giovanissimo, addirittura bambino, il richiamo affascinante dell’arte alla quale, poi, ha dedicato tutta la sua vita. Autodidatta, perché non si può considerare scuola d’arte il laboratorio di falegnameria dell’istituto che lo ospitò bambino, alla morte del padre, e dove apprese il “mestiere” dall’abile insegnamento di un artigiano, e non si può considerare scuola lo scambio di idee e di gusti col Tarrini, vivace spirito livornese, scultore di caricature e di piccole immagini, quasi bozzettistiche, col quale fu legato da una lunga, profonda amicizia, interrotta solo dalla morte del Tarrini. Trasferitosi a Firenze poco più che ventenne, a Bartoli furono scuola l’Accademia dove assisté a qualche lezione e le sale anatomiche del Chirurgi, ma soprattutto gli artisti del grande passato che agli Uffizi, al Bargello, a Pitti, gli offrivano il mondo meraviglioso delle loro opere. Arnolfo, Giotto, Donatello, Michelangelo. La profonda fede religiosa gli valse la creazione di tante opere di soggetto sacro. Crocifissi, soprattutto, Santi e Madonne che la fantasia ha prima visto dentro il tronco dell’albero intero. “La figura è lì, in quell’albero. Io devo solo fare la fatica di tirarla fuori, di liberarla”. Ogni sua creatura fu singola, ebbe una sua vita, una sua anima inconfondibile. Del resto egli era nato scultore e a diciannove anni esordì con un capolavoro, l’Abele morente, ricavato da un pezzo di legno di pero. E’ opera già perfetta, di fattura elegante, scolpita con rapida immediatezza, realizzata con voluta aderenza alla realtà, carezzata con amore infinito fino a renderne preziosa la superficie e commossa la sofferenza, in una felice, originale, giovanilissima interpretazione di passati modelli. E dallo studio dell’artista sono saliti sull’altare di numerose chiese fiorentine e del contado (Sacra Famiglia, Sacro Cuore, San Salvatore al Monte, San Gervasio, Sant’Jacopino, la Badia a Ripoli, Figline Valdarno) e sono andati anche molto più lontano, a Napoli, a Tunisi, in Papuasia, come a Salta, in Argentina, è andata una delle sue più belle Pietà, un tema,, dopo il Crocifisso, che torna frequentemente nella produzione religiosa del Bartoli. E ognuna di esse in un unico dolore e in un abbraccio racchiude la Madonna ed il Figlio. Sono blocchi potenti che richiamano forme arnolfiane o immagini sdutte che si affilano consunte dalla passione. E poi San Francesco, il più umile, il più sereno dei Santi e, forse, il più vicino al suo Dio, di cui ha sofferto le stimmate e la piaga del costato e che è caro al Bartoli quasi in lui egli ritrovi la sua anima semplice e la sua natura spontanea e istintivamente immediata. Con il Cantico delle Creature e l’Inno al sole il Bartoli crea due delle sue opere più significative, che vibrano tutte della sua anima e del suo sentire. In esse la maniera dell’artista si è fatta ancora più viva, seguendo i suggerimenti che gli vengono dalla forma stessa dell’albero, nel ripetersi di un muto, ma intenso, dialogo. La materia si è fatta morbida, rispondendo docilmente all’intenzione dell’artista, mentre il volto inebriato del Santo dà luce e armonia a tutta la figura. Morbido, lieve, di una sensibilità epidermica si fa anche l’avorio che il Bartoli ha lavorato con infinito amore, creando dei delicati Crocifissi che, in interpretazioni talvolta modernissime del soggetto, ripetono la sapiente preziosità di quelli cinquecenteschi. La forma ne è ben definita, ricavata con decisa fermezza nella materia preziosa; le ombre giocano, create con perizia dalla sensibile mano dell’artista, sui volti sofferenti e sulle membra segante dalla passione. E la luce, scivolando sulle masse tornite, dà loro palpiti infinitamente sottili, in un gioco di conchiuse e perfettamente accordate armonie. La fede, la musica, gli alberi, il mare, sono le componenti propulsive e ispiratrici del Bartoli scultore, come sono la molla instancabile della sua serena e sempre giovane personalità. Le si ritrovano tutte nella sua più recente attività, la pittura ad encausto. Vi si è abbandonato con entusiasmo e con fiducia, dando vita ad immagini robuste, quasi esclusivamente per via di colore. Un colore vivo, pieno, mediterraneo che solo qualche volta si incupisce in toni violacei o verdastri, a sottolineare un pensiero, uno stato d’animo particolare. Volutamente il Bartoli sembra, talvolta, ignorare perfino la prospettiva e le sue leggi geometriche, quasi che la sua fantasia non ne possa sopportare le regole. Così l’immagine di San Francesco si schiaccia contro il verde di un bosco nel ripetere, estatico, l’atteggiamento di Gesù crocifisso, mentre i protagonisti della Fuga in Egitto si dispongono su uno stesso piano, con giochi verticalistici in un dolce, commosso ritorno all’ingenuità prospettica dei primitivi. Ma il colore brilla e riveste dei suoi toni più vivi di rosso, di blu, di giallo, di verde, le immagini, ripetendo, a volte, gli incantevoli giochi delle più antiche vetrate di una fantastica chiesa. E questi giochi di colore e di forme, si accettano, si godono, si amano, perché sono come un’evasione, un sogno sereno nella più dura realtà della vita, io credo, anche nell’intenzione dell’artista. legno.